“Non dobbiamo avere timore della bontà e della tenerezza”
Papa Francesco
La frase con cui vorrei cominciare a raccontare la mia testimonianza è stata pronunciata da Papa Francesco durante la celebrazione dell’inaugurazione del ministero del Santo Padre. Mi chiamo Camilla e ho 19 anni. Il 6 settembre sono partita da Bologna per trascorrere 4 settimane a Mbarara, città dell’Uganda. Tutti mi dicevano che sarebbe stato un viaggio che mi avrebbe cambiata e più volte ho provato ad immaginarmi come sarebbe stata la mia vita là ma mai mi sarei aspettata di tornare così arricchita. Il mio arrivo in Africa non è stato facile. La difficoltà non è stata tanto trovare un mondo completamente diverso da quello occidentale, cosa che anche dall’Italia potevo ipotizzare, ma avere a che fare con una mentalità e un modo di pensare opposto perlomeno al mio. Per loro non esiste la fretta,
non esiste la puntualità, non esistono programmi. Esiste il saper aspettare che Dio faccia quello che è giusto fare. Già da subito ho capito che l’Africa sarebbe stato il paese delle sorprese. Ogni volta che programmavo qualcosa, ne succedeva un’altra che non avevo assolutamente messo in conto.
Quando ho cominciato ad adottare il loro modo di vivere e quando ho smesso di aspettarti qualcosa, tutto ha iniziato a funzionare. Era come se giorno dopo giorno trovassi le tessere giuste che mi permettevano man mano di completare il puzzle finale, ovvero tornare a casa avendo raccolto il massimo da questa avventura e riuscendo a riscoprire parti di me ormai da tempo seppellite.
In Italia, sono sempre stata abituata ad una vita frenetica, sempre di corsa. Il mese a Mbarara è stato come rallentare il tempo. Ogni
istante l’ho vissuto a pieno, in tutte le sue sfaccettature. Questo mi ha permesso veramente di guardarmi dentro, di capire che persona sono stata e che persona voglio essere. Mi sono resa conto che la vita di tutti i giorni, la scuola, il lavoro, il denaro, ecc. ci fanno molto spesso dimenticare di guardarci dentro.
Più che un viaggio per volontariato, è stato un viaggio personale. Una pausa per riscoprirmi. Ogni situazione, ogni persona, ogni cosa che ho fatto mi ha aiutato a riscoprire quella bontà e tenerezza che in Italia avevo nascosto dietro la razionalità, l’orgoglio e il cinismo.
“We share because brothers share. And we are brothers”
(“Noi condividiamo perché i fratelli condividono. E noi siamo fratelli”)
Questo è l’insegnamento principale che viene dato ai bambini della Baby Home. Non mi piace usare la parola orfanotrofio perché subito la associo a orfano e di conseguenza ad una condizione di tristezza. La Baby Home di Padre John è tutto fuorché tristezza. I bambini hanno poco e proprio per questo apprezzano anche le minime cose. Si accontentano che tu sia lì e infatti la prima volta che sono entrata sono stata accolta da tutti i bambini che mi sono corsi incontro a braccia aperte.
La mattina la passavo con loro. Mentre i bambini più grandi erano a scuola nella classe che è presente dentro la Baby Home, io trascorrevo del tempo con i più piccoli. Quello che mi ha stupito fin da subito è notare come i bambini debbano imparare a crescere in fretta. Sono veramente pochi quelli che prendono il latte dal biberon perché la maggior parte, anche se non ha raggiunto ancora il primo anno di vita e ha solo pochi denti in bocca, già beve con il bicchiere, mangia autonomamente, gattona o cammina barcollando.
Quando arrivavo io, era l’ora della “colazione”. Dopo aver mangiato, i bambini autonomamente andavano in bagno mentre io e le altre maestre che lavorano lì davamo il biberon ai neonati. E dopo si giocava fino al momento della merenda. La cosa bella è che i bambini hanno veramente bisogno di poco per ridere. Molti venivano da me, appoggiavano la testa sulle mie gambe e stavano lì senza chiedere nulla. Bastava un mio sorriso, una carezza, un verso strano fatto con il naso o il potermi tirare i capelli che ridevano come dei pazzi. Ovviamente come tutti i bambini, sono gelosi e si fanno i dispetti ma c’è sempre una fratellanza che ho trovato impressionante. Se un bambino si fa male e piange, arrivano gli altri a fargli carezze per consolarlo. Oppure se un bambino ruba un gioco ad un altro, ne arriva un terzo che restituisce il gioco a colui a cui spetta. Il momento per me più significativo era la merenda. La maestra dava il cibo, solitamente o un biscotto o un po’ di frutta, ad un bambino dicendogli di darlo ad un suo compagno e così via. Quindi quando tutti avevano ricevuto la loro merenda, venivano da me e me la porgevano per condividere. I bambini più grandi invece bevevano il “porridge” (zuppa d’avena).
Prima però tutti compostamente seduti, ringraziavano Dio per il cibo e battevano le mani per Gesù. Una volta terminato riponevano i bicchieri uno sopra l’altro. La loro educazione mi ha lasciata sempre a bocca aperta perché trovo impressionante come così tanti bambini vengano ben educati mentre la maggior parte dei genitori italiani e non solo non riesca a insegnare le regole base per una buona convivenza pur avendo un solo figlio o poco più. Solitamente, io andavo via nel momento del pranzo perché se appoggiavo i bambini che avevo in braccio per terra per andare via scoppiavano in un pianto disperato mentre appena vedevano il cibo erano loro che scendevano dalle mie gambe e con la manina mi salutavano per andare a mangiare. Per i bambini più grandi era più difficile il distacco perché
andando a scuola potevano giocare con me solo durante la ricreazione e per questo motivo non volevano mai tornare in classe.
La mattinata alla Baby Home, oltre ad essere un momento di puro divertimento, mi dava tantissime soddisfazioni e mi dava l’energia per affrontare il pomeriggio. Ogni giorno, imparavo qualcosa di nuovo: dare il biberon a un neonato, fare addormentare i bimbi, imparare le canzoni, inventare sempre dei giochi nuovi. Sembrano cose banali ma per me che sono una ragazza giovane all’inizio non sono state
cose scontate.
Un pomeriggio sono andata lì con Padre John per consegnare ai bambini il latte in polvere, i biberon e gli omogenizzati che avevo portato dall’Italia. Vedere i bambini mangiare di gusto, la gioia nei loro volti, le loro mani immerse nei barattoli e inzuppate di omogenizzato alla mela mi ha ripagato della fatica fatta per riuscire a portare più cose possibili rimanendo nei canoni aeroportuali.
Quello stesso pomeriggio ci siamo recati in una struttura di Padre John dove si ospitano ragazzi orfani oppure provenienti da famiglie così
numerose che i genitori non si possono permettere di mantenere i figli. Siccome la scuola sarebbe iniziata a metà mese, ho portato alle ragazze gli assorbenti igienici che avevo comprato in Italia. Per le ragazze sono importanti perché, costando molto, non se li possono
permettere e quindi, nella settimana del ciclo mestruale, non vanno a scuola oppure utilizzano dei pezzi di giornale che trovano. Le ragazze, consapevoli della fortuna che hanno avuto, quando hanno visto il regalo hanno cominciato a cantare “Thank you Jesus, thank you Camilla” (grazie Gesù, grazie Camilla). A me si è aperto letteralmente il cuore perché è in momenti come quello che ti rendi veramente conto di quanto tu sia fortunato e cominci ad apprezzare le cose che noi diamo per scontato, come gli assorbenti.
Dopo aver donato tutte queste cose, sono tornata in Italia con la consapevolezza che la persona che in realtà si è arricchita più di tutti sono stata io. Perché tutto quello che dai a loro materialmente, loro te lo restituiscono con i fatti: l’ospitalità, l’accoglienza, l’amore. In ogni posto dove sono stata, ho trovato persone che non si sono fatte spaventare dal colore della mia pelle ma mi hanno fatto sentire a casa: mi hanno accudita come se fossi loro figlia o loro sorella. Tutti si sono messi a disposizione per non farmi mancare nulla, per farmi visitare più posti possibili, per farmi sentire a mio agio.
Di esempi ne avrei da scrivere un libro ma voglio raccontare la situazione che mi sta più a cuore. Padre John mi ha chiesto di trascorrere tre giorni con lui nella parrocchia di Rwamagaya, villaggio distante tre ore in macchina da Mbarara, per andare ad evangelizzare. Prima di tutto, è stata un’esperienza religiosamente parlando molto toccante e profonda. In Uganda, la fede delle persone è così forte che addirittura i bambini chiedevano a Padre John di pregare perché i loro genitori si convertissero. Per non parlare poi dei canti e dei balli che fanno durante la Messa. C’erano centinaia di persone di tutte le religioni (cattoliche, protestanti, musulmane) venute lì per ascoltare le conferenze e assistere alle Messe di Padre John. Trattandosi di un piccolo villaggio, la maggior parte della gente non aveva mai visto una persona di carnagione bianca quindi molti addirittura si inginocchiavano in segno di rispetto. In questa parrocchia ho conosciuto Hilary, un ragazzo di trent’anni, che senza che io gli abbia chiesto niente mi ha tradotto in inglese tutti i discorsi in lingua locale che Padre John faceva al popolo. Con lui e con tutte le persone con cui ho trascorso più tempo si è creato un legame così forte che tuttora ci sentiamo al telefono quotidianamente così che io possa tenermi aggiornata di come procedono le cose in Uganda.
Ci sarebbero un’infinità di altri aneddoti da raccontare ma spero che, a chi leggerà questa recensione, venga anche solo un minimo di voglia di scoprire più a fondo questo mondo meraviglioso e, perché no, di vederlo con i propri occhi e viverlo sulla propria pelle. Sono convinta che ognuno vive l’Africa in maniera diversa, fa esperienze diverse proprio perché non si sa mai cosa aspettarsi quando si è lì ma tutti torniamo a casa arricchiti.
Le risate e gli abbracci dei bambini, il calore della gente, la religione che è presente in ogni dove, le difficoltà che ho dovuto superare per ambientarmi, i canti e i balli delle persone che pregano, il senso di libertà che si prova ad andare in motorino senza casco: ecco la chiave che ha riaperto quel cuore ormai da tempo congelato. Io in Uganda ho lasciato il cuore. Ne ho lasciato un pezzo a tutte le persone che ho incontrato: neonati, bambini, adulti e anche anziani ma sono tornata a casa con un cuore più grande perché l’amore non si divide ma si moltiplica.
Camilla Toniolo